Sulle orme dei genitori
Hanno ripreso l’attività dei genitori, o seguono le loro orme. Ne parliamo con Simona Rauch.
In quale momento e come hai capito che volevi fare il mestiere, la professione di tuo padre/di tua madre?
È bello perché per rispondere a questa domanda posso scegliere di pensare sia a mia madre, in quanto insegnante, che a mio padre, in quanto pastore. Infatti, se è vero che da vent’anni sono pastora, nella vita ho fatto la psicologa, la logopedista e l’insegnante, svolgendo dunque sia la professione di mia madre che quella di mio padre. Ma siccome oggi il ministero pastorale è la mia attività principale, mi concentrerò piuttosto su questo aspetto.
Non c’è un momento o un evento preciso che mi hanno fatto decidere di intraprendere questa strada. Direi però sicuramente che ho deciso prima di studiare teologia e poi di diventare pastora, e non viceversa. La decisione di studiare teologia, insieme a quella di diventare pastora, è il frutto di un lungo cammino e soprattutto degli incontri che hanno accompagnato e sostenuto la mia vita. Sono gli incontri e la vita stessa ad avermi portato a scegliere di percorrere questa via, a cominciare proprio dalle esperienze che ho fatto nella mia famiglia. Il mio non è dunque stato un percorso diritto e lineare, ma un cammino che ha preso sentieri nascosti e ha subito più di una svolta inaspettata. Ancora oggi ho l’impressione di essere riportata giorno per giorno a questa scelta dalle persone che incontro, dalle loro domande, dalle loro speranze e dalla loro disperazione. La teologia è la disciplina che più di ogni altra mi aiuta a interpretare la vita e il mondo intorno a me. È un modo di leggere e interpretare la realtà che mi si addice, che continua a incuriosirmi e a farmi crescere.
Nell’imparare il mestiere ti ha facilitato il fatto che tuo/tua padre/madre praticava già questo lavoro?
Direi che il “mestiere di pastora” non me lo ha insegnato nessuno, nemmeno la facoltà di teologia, l’ho imparato e lo imparo ogni giorno sul campo. Ma di sicuro, in questo mestiere particolare, porto con me tutte le esperienze della chiesa e del pastorato che ho potuto fare fin dalla mia infanzia. In un certo senso posso dire che ho incominciato a studiare teologia ben prima di iscrivermi all’università di Ginevra. Il mio contatto con la teologia era quasi quotidiano. Non solo perché, insieme alle favole di Gianni Rodari e alle Fiabe engadinesi illustrate da Giovanni Giacometti, i racconti biblici facevano parte delle storie che i miei genitori mi leggevano ogni sera, prima di andare a dormire. Ma anche perché la chiesa, la fede e la teologia erano argomenti e temi di discussione frequenti in casa. Ho respirato quell’aria e masticato quei concetti fin da piccola, nella mia famiglia, a tavola, alla scuola domenicale, al culto.
La chiesa che ho frequentato fin da piccola è uno dei luoghi importanti che hanno formato innanzitutto la mia vita, e poi anche la mia fede, la mia spiritualità e certamente il mio essere pastora oggi. Direi che il fatto di conoscere la chiesa dall’interno, per averla vissuta quotidianamente accanto a mia madre e mio padre, è nello stesso tempo un vantaggio e uno svantaggio, perché la chiesa in cui vivo e in cui svolgo il ministero pastorale oggi è completamente diversa, è tutta un’altra chiesa. È una chiesa che deve in un certo senso ritrovare il suo posto, il suo ruolo e la sua voce nella società. È una chiesa che, se ha ancora qualcosa da dire – e credo sia così – deve trovare il modo di dirlo oggi, alla gente e al mondo di oggi. E questa è una grande sfida, ma anche una grande opportunità.
Ti andrebbe di raccontare un episodio di quando accompagnavi uno dei tuoi genitori al lavoro?
Il culto dell’Ascensione a Nossa Dona è senz’altro uno dei momenti che più sono rimasti impressi nella mia memoria di bambina. Quella chiesa un po’ buia, ma così speciale arroccata lassù, sulla sua collinetta, quella casa magica lì accanto che mi ricordava tanto i castelli delle favole, quelle rocce su cui ci si poteva arrampicare tutt’intorno, e poi soprattutto, dopo il pranzo, la pesca miracolosa per i bambini! Non so se abbia mai pescato qualcosa di interessante – forse proprio quel pupazzetto variopinto con cui mi intrattenevo in chiesa, durante i sermoni troppo difficili per una bambina della mia età – ma il solo fatto di poter lanciare la mia canna da pesca al di là del siparietto, in attesa di scoprire cosa sarebbe rimasto appeso alla calamita, stuzzicava la mia fantasia di bambina e mi lasciava lì ogni volta con il fiato sospeso. Non l’ho mai dimenticato. E ancora oggi quando salgo a Nossa Dona, quei ricordi sono ben vivi in me, insieme alla musica, alla comunione e alla fraternità di quella giornata speciale.
Cosa cambieresti del modo di condurre il lavoro da parte dei tuoi genitori e cosa ti piacerebbe mantenere?
In fondo non ho bisogno di pormi questa domanda perché la professione del pastore, come quella dell’insegnante, è totalmente cambiata rispetto a cinquant’anni fa. È di per sé un altro mestiere, un’altra professione. Se da una parte si può dire che faccio la professione di mio padre e di mia madre, dall’altra si potrebbe anche dire che faccio un’altra professione. Non sono tanto io che cambierei qualcosa, ma è piuttosto il mestiere stesso a essere profondamente cambiato e a essere in continua trasformazione. Quello che vorrei portare con me è senz’altro la serietà, la passione e la dedizione con cui entrambi i miei genitori hanno svolto il loro mestiere.
Ci sono dei cambiamenti che hai apportato nel modo di condurre il lavoro a differenza di quanto faceva tuo papà/mamma?
Credo che chiunque svolga una professione a contatto con la gente lo faccia con tutto il sapere e l’esperienza che ha accumulato negli anni, ma anche e soprattutto con quello che è, con la sua persona e la sua personalità. Di fronte alla comunità o a una classe di allievi, accanto a un ammalato o a una famiglia in lutto, non ci si può nascondere. Posso solo essere lì con tutta me stessa, con quello che sono. Posso dare alla pastora che sono oggi solo e unicamente il mio volto e la mia voce. E quello che sono oggi è sia il frutto dell’eredità che i miei genitori mi hanno trasmesso e che ho ricevuto da loro, sia il risultato di quello che sono diventata attraverso le esperienze e gli incontri della vita. È difficile separare le cose.
Ti piacerebbe l’idea che uno dei tuoi figli continuasse le tue orme?
Non ho figli, ma se ne avessi penso che le uniche orme che mi piacerebbe che seguissero sono quelle di Gesù. E per seguire le orme di Gesù non bisogna essere pastori né pastore, basta essere uomini e donne che amano la vita, Dio e il loro prossimo.
Quali sono i tuoi obiettivi futuri?
Continuare a trovare gioia in quello che faccio. E continuare a vivere la mia vita lasciandomi interrogare da tre domande che, dal giorno in cui mi sono state poste, non hanno mai smesso di interpellarmi: Credi? Ami? Speri?
Paolo Pollio